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Amilcare Francesco Dallanoce (Della Noce) Nato 1'11 aprile 1888 a Pianello V.T., è figlio di Dallanoce Ettore e di Bacci Maria. Richiamato come soldato di leva di prima categoria della classe 1889 del distretto di Piacenza quale rivedibile della classe 1888 è stato lasciato in congedo illimitato il 18 aprile 1909. Iscritto alla ferma di 2 anni legge, chiamato alle armi il 15 settembre 1909 giunge il 20 novembre 1909 nel 43° rgt. fanteria. Il 31 maggio 1910 viene nominato caporale. Il 7 giugno del 1910, a Tortona, viene nominato tiratore scelto. Il 2 settembre 1910 viene mandato in congedo illimitato dopo aver tenuto buona condotta e aver servito con fedeltà ed onore. Chiamato alle armi per effetto del RD. del 2 novembre 1911 giunge nel 26° rgt. fanteria il 9 novembre 1911. Parte per la Tripolitania e la Cirenaica imbarcandosi a Napoli il 26 novembre 1911. Procura al fratello Carlo della classe 1879 il rinvio alla successiva chiamata per istruzione. Rientra in Italia per invio in congedo e sbarca a Genova il 5 agosto 1912. È mandato in congedo illimitato il 7 novembre 1912. Viene chiamato alle armi per effetto del RD. del 2 agosto 1914 e giunto l'8 agosto 1914 è dispensato dalla chiamata per avere il fratello Federico della classe 1892 in servizio. Nel deposito del rgt. fanteria in Piacenza Ovest e mandato in congedo illimitato il 31 ottobre 1914. Richiamato alle armi per il R.D. del 22 aprile 1915 raggiunge il 7 maggio 1915 il 26° rgt. fanteria e il 23 maggio 1915 giunge in territorio dichiarato in stato di guerra. Il mattino del 16 agosto tra le gravi perdite del reggimento c'è il soldato Della Noce Amilcare Francesco, ferito da un'arma da fuoco ad una gamba (sinistra). Viene trasportato all' ospedale da campo a cavallo di un mulo dal conducente Massari Costante. Il 16 ottobre 1916 giunge nel 90° rgt. fanteria e viene mandato in congedo illimitato il 12 luglio 1919 a senso della circolare 363 del 1919. Viene effettuato il pagamento del premio di cui alla circolare 11? del Giornale Militare del 1919 in lire 250 dal distretto militare di Piacenza il 3 luglio 1919. Durante il tempo passato sotto le armi ha tenuto buona condotta ed ha servito con fedeltà ed onore. Considerato in congedo illimitato secondo la circolare 424 del 1919 il 16 agosto 1919. Risulta iscritto nel ruolo 71-13 della forza in congedo fanteria del Distretto Militare di Piacenza il 1 settembre 1924. Prosciolto definitivamente dal servizio il 31 dicembre 1928 viene ripristinato nella posizione di congedo illimitato per effetto della legge 27 giugno 1929, circolare N. 415 del giornale militare 1929. Risulta iscritto nel ruolo 71-13 della forza in congedo fanteria del Distretto Militare di Piacenza l'11 settembre 1929. Seguono alcuni documenti - attestato di tiratore scelto - attestato di partecipazione alla guerra italo-turca - attestato di partecipazione alla Grande Guerra Interno notte. Una qualsiasi serata invernale, nella seconda metà degli anni cinquanta del secolo scorso. Intorno al tavolo dell’unico ambiente riscaldato della casa, otto persone trascorrono insieme il dopocena. C’è il padrone di casa, il mio nonno materno, classe 1888. All’anagrafe del comune di Pianello Val Tidone in Provincia di Piacenza è registrato come Dallanoce Amilcare Francesco, ma tutti in paese lo conoscono come Cicón, “maggiorativo” – se così si può dire – di Francesco. Un appellativo che richiama la sua statura. E non solo quella fisica, visto che i compaesani l’hanno voluto come loro primo sindaco dopo il crollo del regime fascista. È falegname-mobiliere e gestisce un laboratorio artigiano, aiutato da una piccola pattuglia di collaboratori-dipendenti, tutti parenti o amici di lunga data. C’è sua moglie Perina, Pierina Bozzarelli, classe 1892, sarta. Ci sono le tre figlie rimaste: la primogenita, Mariuccia, nata nel 1914, non è sopravvissuta ad una peritonite durante la seconda guerra mondiale. Enrica, che ora è la maggiore, è la mia mamma e mi ha portato come sempre con sé: abitiamo a pochi passi dai nonni e il piacere di stare in compagnia vince il disagio di affrontare l’uscita nella rigida serata invernale. Le altre due figlie, Ettorina e Anna, non sono maritate e vivono in casa con i genitori. C’è sempre anche uno dei quattro fratelli di Cicón: il calzolaio Pinelu, al secolo Giuseppe Dallanoce, insieme con la moglie Maria, lattaia. Anche loro abitano lì vicino. Talvolta, nella piccola stanza trovano posto anche Gustu, Augusto Rossetti, con la moglie Neta, Anna, sorella della mia nonna Perina. Sul tavolo c’è un po’ di frutta secca e, se butta proprio bene, qualche caldarrosta preparata al momento sul piano rovente della cucina economica a legna. Il programma della serata è tacitamente stabilito. Prima una carrellata sulle più importanti novità del piccolo borgo, a cui contribuiscono tutti i presenti, non tralasciando qualche gustoso pettegolezzo. Poi qualche accenno alla situazione politica nazionale da parte degli uomini che hanno ascoltato il giornale radio e, se è domenica, hanno letto – magari ad alta voce, ad uso dei tanti analfabeti presenti – il quotidiano messo a disposizione dal gestore del bar, dove hanno trascorso alcune ore per un caffè e per una partita a carte con gli amici. Infine, la narrazione più attesa: gli uomini, tutti reduci della Grande Guerra, ripetono per l’ennesima volta le loro storie di partecipazione a questo evento. Sono previsti due capitoli. Il primo riguarda le storie condivise. Tutti concorrono a comporne i paragrafi: la guerra di posizione con le trincee, i reticolati, le gallerie, i gas asfissianti, i lanciafiamme; gli assalti frontali al grido di “Savoia!”, con i carabinieri alle spalle pronti a sparare su chi si attarda; l’urlo della mitragliatrice (la “grande falciatrice”), il sibilo dei proiettili in arrivo e dei temutissimi shrapnel; le migliaia di caduti per la conquista-difesa-perdita-riconquista di una posizione, spesso avanzata solo di pochi metri rispetto al punto di partenza; le sofferenze e la morte per il freddo e per le malattie; i rapporti tra soldati, che spesso faticano a capirsi perché parlano dialetti diversi e spesso non conoscono la comune lingua nazionale... Poi il capitolo che riguarda gli episodi salienti delle storie personali. Quando tocca al nonno Cicón, i paragrafi sono immancabilmente tre: la cattura del prigioniero, la ferita subita durante un assalto sul Monte Santa Lucia (riva destra dell’Isonzo, nei pressi di Tolmino), il successivo servizio a Genova come operaio in una grande industria produttrice di materiale bellico. La cattura del prigioniero. Durante uno degli attacchi italiani alle posizioni nemiche sulle pareti ripidissime del Monte Santa Lucia, interrotte da sbalzi frequenti, per sfuggire al tiro avversario il nonno si getta a capofitto in un avvallamento del terreno. Appena riprende il controllo si trova davanti un soldato austro-ungarico. D’istinto e impaurito, Cicón gli punta contro il fucile, urlandogli di non muoversi. Non si è accorto che l’uomo è disarmato e leggermente ferito. Terrorizzato dal piglio dell’italiano e forse anche dalle voci che i nostri avessero l’ordine di non fare prigionieri, il soldato nemico supplica, gridando a sua volta, di non sparare. Lo fa, ovviamente, in una lingua incomprensibile per il nonno, il quale ha piuttosto l’impressione di essere minacciato. Il nemico si rende conto che l’italiano non ha capito. Smette di urlare, fa vedere le mani nude, lentamente con la mano destra toglie qualcosa dalla tasca interna della giubba e la porge a Cicón: è la foto della sua famiglia, che lo raffigura insieme con la giovane moglie e i tre figli. Il messaggio, questa volta, arriva al nonno chiaro e forte: «Non uccidermi, c’è chi mi aspetta e ha bisogno di me». Cicón abbassa un poco la guardia e mostra a sua volta la foto della sua famiglia. Poi, ancora guardingo, a gesti, chiede al nemico se ha sete e fame. Quello mostra la borraccia e il tascapane vuoti. Trascorrono così, stesi uno a fianco dell’altro, le ore seguenti, dividendo le razioni che il nonno aveva con sé. Poi, a battaglia finita, il nonno lo accompagna al punto italiano di raccolta dei prigionieri. È l’estate del 1915. Cicón conclude sempre la narrazione di questo paragrafo dichiarando che il soldato nemico aveva così evitato tre anni di combattimenti e dicendosi convinto che fosse tornato sano e salvo alla sua famiglia, alla fine della guerra. La ferita. Lo scenario è sempre quello del Monte Santa Lucia. Il 16 agosto del 1915, durante l’ennesimo attacco, Cicón è colpito alla coscia sinistra da un colpo di fucile nemico. Il proiettile ha attraversato la carne dall’interno verso l’esterno, fuoriuscendo dall’altra parte: il nonno non riesce a reggersi in piedi e perde molto sangue. Il combattimento infuria e lui, per proteggersi meglio, riesce a scivolare in una buca. Qui cerca di tamponare la fuoriuscita del sangue utilizzando il pacchetto di medicazione in dotazione. Il tempo trascorre inesorabile. La battaglia si va spegnendo. Si sta facendo sera. Comincia a temere per la vita. Ad un tratto riconosce il familiare rumore degli zoccoli dei muli. Si stanno avvicinando, gli sembra che siano diretti verso le linee italiane, ma potrebbero essere nemici. Non può essere visto, acquattato com’è nella buca. Ma lui non osa chiamare: se non fossero i nostri? Ad un tratto percepisce delle voci umane. Non sembrano straniere, anzi, hanno un alcunché di familiare. Quando si fanno vicine non ha più dubbi: sono italiane, anzi valtidonesi! Riconosciuto il proprio dialetto, comincia a gridare per segnalare la sua presenza e poco dopo gli appare il volto stupito e sorridente del compaesano e amico Costante Massari. È lui che lo carica sul mulo e lo trasporta all’ospedale da campo dove Cicón riceve le prime cure e da dove è poi inviato nelle retrovie. Come per l’episodio della cattura del prigioniero, il nonno conclude sempre questo paragrafo sottolineando la grande straordinaria fortuna che lo ha baciato, salvandogli la vita. E con un pensiero ai tanti compagni d’arme che invece non hanno fatto ritorno. In fabbrica. Dopo varie vicissitudini, il 6 ottobre 1916 il nonno è assegnato al 90° rtg. Fanteria, di stanza a Genova. Qui è impiegato come operaio all’Ansaldo, dove è in atto una corsa titanica alla produzione di armamenti. Lontano dai pericoli dei combattimenti, Cicón si sente però ancora coinvolto nello sforzo bellico e partecipe di quei cambiamenti epocali che si stanno svolgendo sotto i suoi occhi. Lui, piccolo artigiano, si trova ad operare in una grande fabbrica che applica tutti i processi produttivi tipici della rivoluzione industriale. Lontano dal piccolo borgo natio, impara a conoscere una grande città, dove la sua coscienza nazionale matura ulteriormente, recuperando e facendo evolvere le esperienze fatte al fronte. Anche i suoi orientamenti politici trovano lì un fertile terreno di coltura. Vuol condividere quest’esperienza con la famiglia e fa venire a Genova anche la moglie e la figlia, che rimarranno lì fino alla fine della guerra. Cicón, a chiosa di questo paragrafo, commenta sempre che l’immane tragedia della guerra lo ha toccato solo “di striscio”, riservandogli anche l’opportunità di crescere come persona e come cittadino. *** Con queste loro narrazioni, ogni volta i tre reduci testimoniavano, a se stessi e agli altri, quanto la Grande Guerra avesse inciso profondamente nella vita di tutti e avesse rappresentato un momento di discontinuità davvero radicale con il passato. Nel 1911 avevano combattuto in Tripolitania e Cirenaica: ma i ricordi di quei fatti d’arme non avevano per loro la stessa intensità, lo stesso “spessore” di quelli riportati dalla Grande Guerra. Narrando le loro piccole storie della Grande Guerra manifestavano la consapevolezza di essere stati partecipi di uno straordinario processo evolutivo della grande storia. Ascoltandoli, anche se ero in età giovanissima, ho sempre avuto la vivida impressione di assistere ad una sorta di liturgia. La ripetizione negli anni dello stesso “rito” ha lasciato in me questo segno, anche se, ovviamente, solo più tardi ne ho maturato la consapevolezza. Antonino Magistrali Attestato di partecipazione alla guerra italo-turca
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